Sono una Sociologa, di stampo clinico, sgusciata fuori da statistiche e flussi informativi per scendere in campo ed incrociare persone, con le loro storie ricche di spunti che spesso illuminano la propria. Nell’Hospice Clotilde, struttura all’avanguardia per le cure palliative nell’ASL NA 3Sud, ho vissuto e continuo a farlo, l’ esperienza del celebrare la vita quando si è ad un passo dal perderla. Ho scoperto, nel lavoro d’equipe, quel filo sottile ed invisibile che ci tiene per mano quando ci troviamo a dover sostenere il dolore della perdita, sia dei pazienti che dei loro familiari. Magari anche a provare a dare un senso alla morte, che tanto esiste perché esiste la vita, puntando sull’amore che ci resta. Sono sempre stata una fan dell’accoglienza, intesa come creazione di uno spazio dedicato all’altro , alla sua storia e, soprattutto, all’onda emotiva che si scatena al momento dell’incontro. Uno spazio che da bianco diventa color osso di seppia, delicato ma definito e che, nel tempo, si trasforma, mutuando stati clinici e stati d’animo per fonderli in nuove nuances in cui il nero non è compreso. Penso al significato del verbo accogliere: condurre presso di se’.“ Grazie per aver accolto mia madre e per averci accolto”, dice una figlia, una donna, una persona, uno dei nostri, perché ha vissuto con noi un tempo, temuto e poi accettato, di vicinanza alla madre nell’ultimo tratto di strada. Un tempo vissuto in una casa con le porte aperte, casa Clotilde , dove si respira l’aria della normalità, la stessa di operatori, ospiti, familiari: la normalità del prendersi cura. Sotto il cielo di casa Clotilde succede la vita, tradotta nella certezza che quello che facciamo ha un senso, indipendentemente da come finirà . Perché cielo e non tetto? In passato il soffitto era chiamato il “cielo” di una casa, quasi ad indicare che esiste una continuità terra/cielo e che abiteremo soltanto nuove case : nulla si perde, tutto si trasforma, quaggiù e poi lassù. Ai piani di questa bella casa Clotilde, luminosa e discreta, la normalità è rappresentata dall’assenza di divisori di una vita in un’altra vita, dove tutto ha il senso che comporta esserci, dall’inizio alla fine. Accogliendo lo smarrimento iniziale di chi entra nel nostro “Hospice”, ci impegniamo a sottolineare la possibilità di vivere che sempre sottende finchè vita c’è, continuando con l’arrivederci altrove. Proviamo a camminare insieme, consapevoli che tutto ha un senso, al di là di come finirà.
I nostri malati, quando entrano, hanno breve aspettative di vita ed il nostro intervento è volto soprattutto ad evitare il dolore e l’isolamento. Non vi sono divieti e, nei limiti del possibile, ogni desiderio del paziente sarà esaudito.
Insieme al malato, entra la famiglia che troverà posto non solo nella stanza accanto al proprio caro, ma in tutto il percorso di cura. L’accoglienza dei familiari è imprescindibile, potendo affermare con chiarezza che tutto il gruppo famigliare è al tempo stesso “curante” e “paziente” e ,pertanto, entra a pieno titolo nel percorso di cura, diventando una risorsa terapeutica importante. Siamo sempre pronti ad osservare atteggiamenti di abbandono o di protesta che altro non sono che modalità difensive dall’angoscia e dalla frustrazione che l’imminente separazione scatena, accogliendoli senza giudizio.
I bisogni delle famiglie, che vivono un’esperienza di malattia grave di un proprio congiunto, diventano dei diritti che necessariamente dobbiamo difendere, sostenendoli particolarmente nel:
- poter esprimere le esperienze che stanno vivendo;
- capire qual è il miglior comportamento d’adottare nei vari momenti di difficoltà famigliare;
- essere ascoltati e supportati nell’affrontare il senso di colpa che potrebbe essere vissuto durante l’assistenza;
- riuscire a dare un senso alla situazione di malattia inguaribile e/o della morte;
- rimanere in contatto con il mondo e con la realtà fuori di casa;
- rivisitare i ruoli e i legami affettivi all’interno della coppia e della famiglia
In Hospice, la formazione mirata insegna a noi operatori che la morte riesce a trovare una propria dimensione per essere compresa, accolta come manifestazione dell’esistenza, supportata con tatto, pazienza, tempo, disponibilità umana. Anche su questo versante l’hospice interviene: offre sostegno al familiare che deve svolgere la difficile prova di continuare a vivere mentre il proprio caro lo sta lasciando per sempre, e risponde alle sue domande. Domande che sono bisogni: ricevere rassicurazioni sul fatto che il malato non stia soffrendo, essere informato sulle sue reali condizioni, trovare il giusto modo di comunicare le proprie emozioni, capire che non è importante quanto, ma come vivere questo tempo prezioso insieme al proprio caro.
Perché arriverà il momento in cui inizia il lento distacco dalla realtà terrena, le parole divengono superate e il paziente diventa più introspettivo, alla ricerca della propria vita passata per rintracciarne valore e significato, fino a concentrarsi esclusivamente sull’esperienza che sta attraversando, così simile, secondo la bella espressione dello psicanalista Michel de M’Uzan “ad un parto di se stessi, un tentativo di mettersi completamente al mondo prima di scomparire”.
Punto cardine nell’assistenza al paziente è aiutarlo a trasformare l’isolamento in solitudine, alla luce del fatto che quando la malattia è invalidante, la solitudine diventa un incubo, ma anche un rifugio, per chi per primo non accetta la propria condizione e stenta ad integrarsi in un mondo di ‘normali’ La solitudine produce malattia, la malattia porta all’isolamento. Ma è anche nella solitudine che si può recuperare se stessi: “Restituire all’arpia le sembianze della ninfa” come afferma il dott. Pasquale Romeo. È l’isolamento che temiamo, ovvero l’esclusione dell’Altro che viene vissuto come minaccia .Il percorso della cura, è orientato a liberare la persona da una condizione di isolamento trasformandola in solitudine. L’isolamento non è altro che una solitudine mascherata, e creare il passaggio da una condizione all’altra, così come riempire l’esperienza di contenuti emozionali è fondamentale.
Alla cura con i farmaci, aggiungiamo il dialogo e l’ascolto, l’introspezione, l’immedesimazione, la partecipazione emotiva, la gentilezza e sulla solidarietà, le parole che nascono dal silenzio e dalla solitudine. Take home message: dal contatto con la fase finale dell’esistenza impariamo a celebrare la vita come dono.
Lucia
Complimenti per le bellissima parole. Peccato che la mia esperienza, con la morte di mio padre in un hospice ASL della mia provincia, non lontano da voi,sia stata completamente l’opposto, terribile e disumana. Al dolore del lutto si é aggiunta la rabbia dovuta a un regolamento interno Covid(ancora in vigore a luglio 2021) che mi ha impedito, nonostante i vaccini, di stargli accanto nei suoi ultimi momenti di vita, senza riceve un minimo di informazioni, vicinanza emotiva, gentilezza e solidarietà da parte degli operatori che mi hanno solo comunicato attraverso una finestra del peggioramento di salute e della probabile morte…È stato terribile!
Complimenti, perché c’è tanto bisogno di empatia e un pò più di umanità, specialmente in questi luoghi e, per esperienza personale, posso dire che non sempre è così.
Grazie
Lucia